Fabio Bucciarelli è un bravo fotografo torinese, giovane ma già pluridecorato di award e premi: un terzo posto al Sony World Photo Award, un secondo posto al World Press Photo 2013, svariate finali qua e là, e soprattutto la Robert Capa Gold Medal: tutta roba che contribuisce a lanciarlo a velocità di razzo direttamente nell’Olimpo del fotogiornalismo.
Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo l’altroieri si è inaugurata la sua mostra personale, “Evidence”. Ne fanno parte settanta fotografie a colori ed in bianco e nero, suddivise sapientemente in quattro macro aree: Iran, Birmania, Libia e Siria. Più un piccolo excursus che riguarda il Sudan del Sud.
Non proprio posti adatti a famiglie in villeggiatura, se vogliamo usare un eufemismo. Ed infatti le fotografie abbondano di arti mozzati, armi da fuoco, paesaggi distopici, urla, barelle, eccetera. C’è insomma un po’ tutto il campionario orrorifico del fotogiornalismo del conflitto.
Fabio Bucciarelli infatti proprio di questo si occupa: di guerre, di rivolte e rivoluzioni, e punta il suo sguardo soprattutto su Asia e il Medio Oriente. Leggendo la sua biografia lui stesso si definisce un “fotografo documentario che concentra la sua attenzione sui conflitti e sulle conseguenze umanitarie della guerra“. Per mia scelta personale eviterò di annoiarvi dicendo frasi ovvie sul fotogiornalismo del conflitto. Quello che però mi interessa approfondire è il perché, nella marea infinita di fotogiornalisti, Bucciarelli spicca, e spicca alla grande.
Il ragazzo sembra possedere molti talenti, e a vedere i suoi reportage pare essere davvero instancabile. Una delle caratteristiche del fotogiornalista di guerra a quanto pare è la capacità di essere mobile come una pallina da flipper e Bucciarelli segue da vicino tutti i grandi avvenimenti che hanno popolato la sanguinosa cronaca estera di questi anni: dal conflitto in Birmania alle rivolte della “Primavera Araba”, passando dai fatti di GeziPark in Turchia.
Dunque molti talenti: ma fra i tanti ne possiede uno particolarmente inusuale per il suo campo – il dono della sintesi. Più che storie narrate da un insieme di fotografie, sembra che Bucciarelli concentri la sua attenzione sulla precisione e sull’incisività delle immagini singole. Ogni fotografia è costruita con grande attenzione al suo contenuto, specialmente in termini di elementi che la compongono. Le inquadrature, giocoforza figlie della concitazione del mestiere, non sono mai banali e pur nella loro “confusione” riescono ad essere estremamente precise e a sintetizzare un percorso narrativo con pochi elementi. In sostanza, hanno tutti gli ingredienti per essere immagini iconiche.
Naturalmente abbondano le foto di morti e mutilamenti: ma quello che colpisce l’occhio maggiormente, come sempre, non è lo spettacolare quanto l’inusuale; non le urla ma l’ambiguità. E dunque Bucciarelli appare più incisivo laddove riesce, e ci riesce spesso, a nascondere i particolari che poi saltano all’occhio all’improvviso e lasciano il segno. E’ il caso ad esempio di una fotografia della serie The Longest Ongoing War in cui due soldati si scambiano le armi e solo in un secondo momento ci si accorge della mutilazione di un terzo personaggio che occupa la parte destra dell’inquadratura.
Bucciarelli poi sembra provare una particolare attrazione per la distopia. Per definizione un fotoreporter di guerra sostanzialmente si occupa del peggio dell’umanità. Il contesto in cui Bucciarelli si muove, fra città bombardate e corpi dilaniati, contribuisce a pennellare notevoli paesaggi distopici, in cui dominano i mattoni distrutti, il fango, le persone solitarie che si muovono per le strade o i cadaveri trascinati via.
I protagonisti delle sue fotografie hanno spesso un non so che di grottesco: deformati dalle ferite urlano, hanno protesi agli arti, i loro volti sono maschere di sangue. Lontanissimi dal modello del soldato “da copertina”, essi ci appaiono come vittime o guerriglieri clandestini, raccogliticci, vestiti in canottiera o jeans ma con il lanciarazzi in mano o il mitra spianato verso qualcuno, probabilmente speculare a loro, ma nemico. In fondo vittime tutte di qualcosa “di più grande”, che non si vede ma influenza le loro vite: un’ideologia, una religione, un dittatore, chissà cos’altro.
In tutto questo grandioso campionario della deiezione umana, Bucciarelli si muove con notevole coraggio documentando sì i fatti “storici”, ma soprattutto le singole situazioni. La grande forza delle sue immagini risiede nel fatto che, osservate globalmente, sembrano apparire non tanto come delle “narrazioni di guerra” (pur di notevole pregio), ma come il racconto di una distopia globale, un immenso affresco composto da tante piccole scene di un mondo folle in cui non si vede una speranza di salvezza che sia una, se non il pianto. Guardando le fotografie di Bucciarelli viene da chiedersi: “Ma perché? Che senso ha il ridursi così?”.
Nel caos di questi paesaggi devastati, infatti, le sue immagini non parlano: ti fissano, in silenzio.
“Evidence”, di Fabio Bucciarelli
19 settembre – 6 ottobre 2013.
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Via Modane 16, Torino.
Ingresso libero.
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