Cosa ci può insegnare Elliott Erwitt? E’ questa la domanda che ci si potrebbe porre visitando la mostra “Elliott Erwitt – Retrospettiva” che c’è in questi mesi a Palazzo Madama, Torino. Una bella cornice, talmente bella che è quasi più interessante perdersi con il pensiero guardando le fondamenta dell’edificio dal geniale pavimento di vetro.
Erwitt è un fotografo di fama internazionale dell’agenzia Magnum, uno dei grandi fotografi mitologici assieme a Capa, McCurry, Bresson e compagnia bella. Alcuni dei suoi scatti in bianco e nero sono ormai iconici e il suo buon gusto per l’inquadratura sollazza il visitatore che ne può ammirare la precisione compositiva e l’occhio “da istantanea”, nonché i sapienti bianchi e neri, sempre bilanciati al punto giusto.
“Non ci vuole poi molto: vedi qualcosa che ti incuriosisce e scatti”: così la voce di Erwitt dall’audioguida gratuita ci spiega il suo modo di fare fotografia.
Erwitt è un tipo ironico, di questo bisogna dargli atto. Sfruttando le situazioni che gli si presentano di fronte costruisce delle inquadrature al limite del genio: l’airone fotografato in prospettiva con la fontanella, i turisti che guardano la Maya Desnuda di Goya, un uomo nudo che fa sorridere delle anziane giurate. Spesso gioca coi doppi elementi per innestare un meccanismo di paragone, o con le prospettive inusuali. La forza delle immagini argute e la fama di Erwitt sono carte pesanti da giocare, e infatti la mostra scorre piacevolmente.
Purtroppo, il sistema con cui è costruito il tutto non aiuta a farsi un’ottima idea di Elliott Erwitt. L’audioguida prevede una breve (a volte brevissima) descrizione di una trentina di fotografie. Nella maggior parte dei casi si tratta della voce del fotografo stesso, sempre un po’ vago nelle sue spiegazioni. Sembra quasi che sia finito lì suo malgrado, che non abbia voglia di esserci. Erwitt dice frasi di circostanza, un po’ scocciate, come:
Eccetera. Insomma si ha un po’ la sensazione di aver disturbato il povero Elliott, facendo questa mostra/intervista. A un certo punto, a commento di una foto di due sposi, l’altra voce dell’audioguida (una commentatrice femminile) dice piccata: “E non provate a a chiedergli che cosa pensa del matrimonio, lui che ha sei figli”. Ne ho preso atto e non volendo dare ulteriore pena al povero maestro, che immaginavo infastidito dalle continue richieste di spiegazione, ho smesso di ascoltare.
Anziché forzare delle spiegazioni su tutto, mi sarebbe piaciuto sentire qualche domanda più mirata ad Erwitt, qualcosa di saliente sui vari filoni tematici che ha esplorato nel corso della sua carriera: i cani; le stanze; il turismo; il nudismo. Forse ne avremmo ricavato tutti qualche interessante lezione sulla progettualità nella fotografia, sul fil-rouge che unisce foto distanti vent’anni, sull’importanza di avere in mente delle idee. Mentre ad ascoltare l’audioguida sembra che la fotografia si faccia e basta, l’importante è scattare d’istinto e poi ricomporre le idee, una filosofia che ci sta letteralmente affogando nelle immagini e nella banalità dello “scatto compulsivo”.
“Non ci vuole poi molto: vedi qualcosa che ti incuriosisce e scatti”. Esco dalla mostra in piazza Castello e due ragazze fotografano il cono gelato che stanno mangiando per metterlo su Instagram; un giovane fotografa le sue due amiche di fronte alla fontana. A quanto pare, non ci vuole poi molto; basta scattare.
Intanto dopo “L’Italia e gli Italiani” (di cui Fulvio Bortolozzo ha scritto cose che mi trovano abbastanza d’accordo), la mostra su Cartier-Bresson e quella su Robert Capa, con “Elliot Erwitt. Retrospettiva” la Magnum si fa piano piano strada in quel di Torino.
Elliott Erwitt. Retrospettiva.
17 giugno – 1 settembre 2013.
Palazzo Madama, Cortile Medievale. Torino
ingresso: 8 € intero, 5 € ridotto.
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